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Disturbo reattivo dell’attaccamento, disturbo da impegno sociale disinibito, disturbo post traumatico da stress, disturbo da stress acuto, disturbo dell’adattamento.
Lo stress può generare diverse sintomatologie a seconda dell’età, dei fattori di temperamento, di quelli ambientali e della precedente esposizione a traumi.
I sintomi possono essere di tipo internalizzato quindi ansia pura, oppure esternalizzato quindi rabbia. Nel nuovo DSM 5 i disturbi causati da eventi stressanti e trauma vengono raggruppati in un unico capitolo appartenente a sua volta ai 3 capitoli dedicati all’ansia:
disturbi d’ansia
disturbi ossessivo compulsivi
disturbi correlati
aggressività, o ancora una combinazione di entrambi.
I primi nuovi due disturbi spostati nel DSM-5 in questa categoria ne sono un esempio:
“disturbo reattivo dell’attaccamento” e disturbo da “impegno sociale disinibito“.
Questi disturbi hanno la stessa eziologia, caratterizzata da una storia di trascuratezza e abbandono genitoriale avvenuta prima dei 5 anni di età. Unica differenza tra i due disturbi è legata appunto all’espressione dei sintomi:
nel disturbo reattivo dell’attaccamento I sintomi sono internalizzati
nel disturbo da impegno sociale disinibito sono esternalizzati
per tutte e due le diagnosi è necessario che il bambino abbia compiuto più di 9 mesi e la sintomatologia si presenti da più di 12 mesi
Dopo questi due disturbi con comparsa in età evolutiva ed in linea col modello life-span, nel DSM-5 viene descritto il “disturbo post traumatico da stress”.
Per effettuare questa diagnosi è necessario che la sintomatologia compaia entro i tre mesi dall’evento stressante.
Il disturbo post traumatico da stress ha dei criteri differenti adatti ai bambini di età al di sotto di 6 anni; la differenza sostanziale sta nel fatto che per la diagnosi dei bambini è previsto un solo sintomo di evitamento o di reazione emotiva o comportamentale. Inoltre a differenza del DSM-IV nel DSM 5 è stata eliminata la specificazione che debba essere presente la reazione emotiva di paura, orrore e disperazione.
Nell’effettuare la diagnosi il clinico:
Deve essere molto più specifico Infatti deve valutare e specificare il tipo di causa che ha creato stress, per esempio sessuale, verbale, fisica, ambientale, eccetera.
Deve anche Specificare la modalità in cui è avvenuto lo stress: direttamente, indirettamente, ripetutamente, eccetera.
La diagnosi del disturbo post traumatico richiede la presenza di alcuni sintomi:
Devono essere presenti Inoltre sintomi intrusivi associati all’evento traumatico (intensa sofferenza psicologica, sogni, reazioni dissociative come flashback…)
Deve essere presente l’evitamento degli stimoli associati al trauma.
Devono essere presenti dei disturbi marcati dell’aerosol, della emotività, della reattività.
Compaiono anche importanti sintomi come:
pensieri persistenti intrusivi che portano il soggetto ad auto biasimarsi o a biasimare altri.
tendenza a effettuare comportamenti spericolati o autodistruttivi
Questo disturbo può evolversi nel 80% dei casi in comorbilità con disturbi correlati all’uso di sostanze disturbi d’ansia, nei bambini disturbi d’ansia di separazione, disturbi dell’umore, bipolarismo oppure con disturbi oppositivo provocatori.
Sempre nella categoria dei disturbi correlati ad eventi traumatici vi è il “disturbo da stress acuto”. Per questo disturbo i sintomi devono iniziare entro 3 giorni ed avere la durata di un mese.
Anche in questo disturbo come reazione dell’evento traumatico, non è richiesto che vi siano sintomi di paura o orrore intensi. Vi sono gli stessi sintomi del disturbo post traumatico ed influiscono sull’area del pensiero, dell’umore, della dissociazione, della soglia dell’aerosol e causano evitamento dagli stimoli stressanti.
Anche i “disturbi dell’adattamento” sono stati inseriti nel DSM tra i disturbi conseguenti ad eventi stressanti. Stessa sintomatologia presente nel disturbo post traumatico da stress con la differenza che lo stimolo stressante può essere di qualsiasi gravità i sintomi devono comparire entro i tre mesi dall’evento e devono estinguersi entro 6 mesi dalla fine degli stressors.
AUTOSTIMA , una marcia in più !!!
9 CONSIGLI per migliorare la propria autostima e sentirsi a proprio agio.
Sentirsi inferiori agli altri è sintomo di bassa autostima. Essere brutti, essere bassi, essere grassi, essere condizionati dall’aspetto estetico di una parte del nostro corpo concentrandoci sui brutti e strani piedi, mento, collo, capelli ecc…. è invalidante e condiziona il nostro modo di vivere queste nostre “differenti” caratteristiche.
L’autostima si sviluppa nel corso della nostra vita grazie a una serie di vissuti avuti nei vari contesti di vita; Bracken ha sviluppato il “Modello Multidimensionale dell’Autostima”:
“L’autostima si evolve in svariati contesti ambientali in cui i bambini e gli adolescenti si trovano ad agire più o meno attivamente: relazioni interpersonali, controllo sull’ambiente, emotività, successo scolastico, vita familiare, vissuto corporeo” (Bracken, 1992, p. 19).
La bassa autostima induce al complesso d’inferiorità che è quella condizione psichica che non permette di accettarsi come si è, con le proprie particolarità e differenze. In quest’ottica tutti gli altri sono migliori e più capaci di raggiungere determinati obbiettivi, quindi ci si mette al secondo posto svalutandosi e premettendo agli altri di fare la stessa cosa.
La BASSA AUTOSTIMA induce diverse sintomatologiecome:
Insoddisfazione cronica. Non si è mai in grado di attribuire a se stessi le proprie vittorie dando importanza maggiore alle sconfitte, impedendo di gioire ed essere appagati da quello che si fa.
Aggressività. . La frustrazione porta a prendersela anche con gli altri e a reagire in modo aggressivo tentando di mascherare l’insicurezza.
Competitività. Svalutandosi ci si mette nella condizione a volte anche inconscia e celata di voler dimostrare il contrario confrontando in continuazione se stessi con gli altri e cercando quindi di mostrarsi migliori di chiunque.
Dipendenza. Viste le difficoltà nel auto-gratificarsi si dipende spesso dagli atri cercando in loro il modo per trovare gratificazione, conferma, consenso.
Paura di rischiare. Si tende ad essere passivi con scarso spirito di iniziativa per paura di sbagliare o essere giudicati incompetenti.
Agitazione continua. Spesso come sfogo dell’insoddisfazione si cerca sempre di fare di più non fermandosi mai e quindi si è irrequieti e non ci si riesce a rilassare.
Solitudine. Non essendo soddisfatti nel rapporto con gli altri ci si sente soli e non si è mai contenti delle attenzioni ricevute dagli amici e famigliari.
Esagerazione, ansia. Spesso si esagera cercando ad esempio di essere perfetti, cosa assolutamente sbagliata oltre che impossibile in quanto la perfezione non esiste. Spesso accade che si fanno diverse ore di esercizio fisico cercando di rendere il proprio corpo perfetto.
Ostentazione. Può accadere che in pubblico si evidenziano delle proprie particolarità o status proprio come difesa e per compensare il personale vissuto di inferiorità.
La bassa autostima condiziona il pensiero. Gli insuccessi infatti vengono vissuti come gravi carenze personali, spesso infatti ci si illude di dover essere perfetti e visto che ci si concentra nei propri difetti non si riescono a vedere le proprie qualità e potenzialità. In questa ottica, gli insuccessi lavorativi vengono vissuti come carenza di competenze; ad esempio un relazione terminata viene vissuta come la prova dell’avere problemi, di essere bassi, di essere brutti, dell’avere un brutto carattere ecc.. Se non ci si apprezza da soli è ovvio che anche gli altri siano autorizzati a non farlo, è inoltre piuttosto difficile migliorare se non ci si vuole bene e non si accettano i propri difetti e limiti.
Albert Einstein diceva “E’ da folli aspettarsi risultati diversi facendo le stesse cose e nello stesso modo!”
COSA FARE per migliorare la propria autostima e sentirsi a proprio agio?
La chiave per vivere bene con noi stessi ed in armonia con l’esterno è proprio quella capacità di conoscere ed accettare i propri limiti valorizzando i personali punti di forza.
E’ molto utile contestualizzare i propri difetti chiedendosi rispetto a chi e a cosa si è penalizzati? e soprattutto perché, a chi e cosa abbiamo da dimostrare?
Una persona con una sana autostima non ha alcuna necessità e bisogno di dimostrare continuamente quanto vale, in quanto conosce ed accetta i propri limiti, valorizza i propri punti di forza e non ha bisogno di approvazione e riconoscimento da parte degli altri. Quando si valorizzano i propri punti di forza infatti, si ottengono dei risultati eccellenti con quello che si ha superando i propri limiti.
9 CONSIGLI per MIGLIORARE L’AUTOSTIMA e sentirsi a proprio agio:
Amarsi. Abbiamo tutti il dovere di volerci bene e riuscire a coccolarci da soli. E’ opportuno spendere del tempo a prenderci cura di noi, vestendo come ci piace, pettinandoci, profumandoci, andando dal dentista ecc.
Accettarsi. Piacersi anche con difetti, aiuta ad essere liberi e spontanei in ogni situazione.
Valorizzarsi. E’ molto utile ricordare le proprie qualità e i propri successi.
Essere ottimisti. E’ utile guardare “il mezzo bicchiere pieno”, è utile focalizzarsi sul lato positivo delle situazioni.
Essere Assertivi. Sviluppando l’abilità di affermare se stessi in modo costruttivo, essendo attivi, poco aggressivi e facendo scelte responsabili. Esprimendo quindi la capacità di autoaffermazione soggettiva autentica ed efficace.
Vivere nel “qui ed ora”. E’ opportuno essere concentrati sul presente per godere delle piccole mete raggiute e fare in modo che gli insuccessi vengano vissuti nel momento in cui avvengono e non oltre. Il passato ci è utile come base di apprendimento al fine di non ripetere errori già commessi; il futuro invece ci è utile per avere una direzione, ambizione, scopo ecc.; il presente per costruire e godere dei successi che si ottengono.
Dare importanza al linguaggio corporeo. Assumere una mimica positiva, di apertura, sorriso, posizione eretta, aiuta a sentirci anche psicologicamente meglio e soprattutto a rimandare nell’altro una immagine buona di noi stessi quindi predisporlo a noi.
Coltivare le Aree di Vita. Il Modello Multidimensionale dell’autostima (vedi figura sopra) evidenzia che essa è composta da vari contesti in cui viviamo pertanto essi vanno stimolati e coltivati al fine di essere vivi e attivi nella nostra vita. Quindi è molto utile:
-mantenere buone relazioni famigliari, amicali, sociali; -coltivare i propri interessi impegnandosi nel lavoro, scuola, tempo libero;
-dare importanza e valorizzare le proprie emozioni e vissuto corporeo;
– imparare a gestire le varie realtà e contesti.
Psicoterapia. Capita di non riuscire da soli a risolvere le proprie difficoltà è consigliabile in quei casi rivolgersi quanto prima possibile ad uno psicoterapeuta che attraverso un percorso di psicoterapia possa aiutare a correggere le insicurezze e le proprie distorsioni cognitive (errori di valutazione). Ci sono casi in cui la marcata bassa autostima può portare a veri e propri disturbi di personalità come: dipendenza affettiva, disturbo narcisistico di personalità (con autostima ipertrofica finalizzata a mascherare l’insicurezza), disturbi dell’alimentazione, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia. La Psicoterapia ad approccio Umanistico Integrato essendo eclettica e centrata sulla persona risulta molto utile per risolvere tale difficoltà
BIBLIOGRAFIA
Bracken, B.A. (1992). MSCS-Multidimensional Self-Concept Scale. Austin (Texas): RP_ED. Trad. it. Testi di valutazione multidimensionale dell’autostima. Trento: Edizioni Erickson, 2003
Bandura, (2000). Il senso di autoefficacia, Trento, Casa editrice Centro Studi Erickson.
Branden (2004). I sei pilastri dell’autostima, Milano, Casa editrice Corbaccio
Giusti E.; Testi A. (2006) L’ autostima, 224 p., brossura, Sovera Edizioni (collana Psicoterapia e counseling)
Permalink link a questo articolo: https://www.psicologo-taranto.com/2016/07/06/autostima/
L’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia propone e promuove dal 2012 il progetto ” OTTOBRE MESE DEL BENESSERE PSICOLOGICO IN PUGLIA “. Come lo stesso sito dell’ordine riporta: “Tale iniziativa risponde al bisogno di diffondere la cultura del benessere psicologico e promuovere la professionalità dello psicologo nella regione Puglia. La centralità del ruolo dello psicologo è indiscutibile se si fa riferimento al concetto di Salute, intesa come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non alla semplice assenza di malattia”(OMS).”
A sostegno di questa iniziativa il dr Ettore Zinzi Psicologo Psicoterapeuta anche quest’anno nel mese di ottobre 2014 partecipa a questa iniziativaprima consulenza conoscitiva gratuita, per un eventuale avvio di una psicoterapia o percorso di crescita, consulenza, percorso di recupero dalla dipendenza da gioco ecc.
riceve previa prenotazione telefonica, chiamando al 3477604431
Possibilità di contatto tramite e-mail scrivendo a : ettorezinzi@msn.com
Svolge attività della libera professione a :
– Taranto (741231)—Via Campania,10
– Palagiano (74019)—Via Segni angolo Via Pertini
Il dr. Zinzi ha partecipato anche al mese (ottobre) del benessere psicologico 2013.
Prima consulenza conoscitiva gratuita, riceve previa prenotazione telefonica, chiamando al 3477604431
Possibilità di contatto tramite e-mail scrivendo a :
ettorezinzi@msn.com
Svolge attività della libera professione a :
– Taranto (741231)—Via Campania,10
– Palagiano (74019)—Via Segni angolo Via Pertini
Permalink link a questo articolo: https://www.psicologo-taranto.com/2014/09/24/ottobre-mese-del-benessere-psicologico-in-puglia/
Con l’aggravarsi della degenerazione cognitiva, il processo dementigeno coinvolge le aree del comportamento e dell’umore, con conseguenze devastanti sulla vita dell’individuo.
Si assisterà alla progressiva insorgenza in forma sempre più aggravata di disturbi dell’umore e del comportamento:
disturbi d’ansia
disturbi del sonno
turbe del comportamento
aggressività
allucinazioni
deliri
irritabilità,
ripetitività
eccessivo attaccamento
disinibizione
alterazione del ciclo sonno-veglia
disturbi dell’umore in senso depressivo fino ad arrivare a possibili tentativi di suicidio
I tentativi di suicidio risultano più frequenti nella prima fase della malattia e spesso con una raggiunta consapevolezza della malattia ma senza alcuna capacità di pianificazione della richiesta di aiuto.
All’inizio del processo degenerativo i tentativi di nascondere la malattia riescono, ma progressivamente con l’acutizzarsi dei sintomi, i bisogni di aiuto diventano sempre più marcati, fino ad arrivare ad una grossa compromissione della vita autonoma.
A causa del fatto che la malattia intacca le aree nelle quali si sviluppa la consapevolezza del sé, il paziente non riesce a dare una visione reale dei propri disturbi spesso minimizzando.
Diversi pazienti grazie all’uso delle abilità residue, sono abili nel continuare a dimostrarsi efficienti nelle abilità lavorative, svolgendole in modo meccanico ed automatico e trovandosi però spesso in stati confusionali nei quali ci si dimentica tutto ciò che si stava facendo.
Molti clienti spesso giungono al primo screening neuro cognitivo soli, riferendo di non aver detto nulla a nessuno dei propri famigliari circa le proprie difficoltà, questo evidenzia quanto sia difficoltoso riuscire ad ammettere prima a se stessi e successivamente all’esterno la possibilità di avere dei disturbi che inficiano le normali abilità della vita quotidiana.
Più la malattia avanza e maggiormente l’area frontale viene intaccata compromettendo sempre più le capacità di critica e giudizio (intendere e volere).
Aggressività
I comportamenti aggressivi dei malati portatori di un disturbo di Alzheimer (AD), possono essere sia verbali che fisici, anche se solitamente sono di carattere verbale.
Le persone che si curano del malato demente, quindi i caregiver, sono coloro che più degli altri subiscono questa aggressività, l’eteroaggressività è accentuata proprio quando il caregiver non è quello abituale, questo avviene poiché il malato sentirà maggiormente di non essere compreso.
E’ molto raro che il paziente rivolga verso se stesso l’aggressività (auto aggressività).
È molto importante per il caregiver rimanere lucido, ricordando che il comportamento aggressivo è dovuto alla malattia più che all’individuo, infatti questi disturbi non risparmiano alcun malato: anche persone con un carattere molto dolce possono talvolta comportarsi in modo aggressivo. Per questa ragione spessi le figure di accudimento e maggiormente i famigliari rimangono sconvolte e sconcertate, non aspettandosi tali reazioni.
Diverse sono le cause che possono scatenare l’aggressività, ma soprattutto la frustrazione e l’ansia. Tuttavia, la causa più comune è la paura; si tratta quindi di una naturale reazione difensiva contro la falsa percezione di un pericolo o di una minaccia. Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, bisogna però cercare di ridurre al minimo le conseguenze per sé e per gli altri.
Sia nel caso di etero che di auto aggressività, il comportamento del soggetto non è agito intenzionalmente ed in modo del tutto consapevole, spesso è il risultato di una sua errata valutazione, disorientamento o errate interpretazioni, determinate da amnesia o da incapacità di tenere sotto controllo tutti gli elementi di una situazione. Il fatto di non comprendere la situazione nella quale si trova, in determinate circostanze disorienta il paziente, determinandogli gravi livelli di ansia e conseguente spavento.
Ogni paziente ha il suo modo di reagire e le reazioni esagerate sia di tipo catastrofico che aggressivo per il caregiver sono comprensibili considerando queste sensazioni. Quando i malati di demenza sono in ottima salute fisica, possono avere molta forza e quindi risultare talvolta pericolosi. In questi casi è molto importante innanzitutto non lasciarsi suggestionare da un comportamento aggressivo, in virtù del fatto che la capacità di coordinazione del soggetto demente nell’effettuare la sequenza motoria aggressiva è molto compromessa, quindi limitata, molto probabilmente non riuscirà ad essere veramente pericoloso, per cui è più utile concentrarsi sulle tecniche più efficaci per estinguere l’episodio. Questo comportamento può metterci in grave difficoltà emotiva e pratica. Quindi sono molto importanti le reazioni del caregiver, che in base a come reagisce può aggravare o alleggerire la situazione.
Specialmente se il caregiver è un familiare, facilmente egli può interpretare la reazione del paziente come diretta nei suoi confronti, anche in considerazione di precedenti conflitti. È importante che i familiari diano la giusta interpretazione agli episodi di aggressività, evitando così di soffrire per quella che è invece una conseguenza diretta della malattia, è poco utile peggiorare il disagio del paziente con risposte improprie.
Come già detto le reazioni aggressive esprimono paura, confusione, disagio, incomprensione, disorientamento. Riuscire ad individuare la causa scatenante esatta aiuterà a trovare la soluzione ottimale per il comportamento aggressivo. Ma non sarà sempre possibile trovare la causa. In tal caso è comunque importante mantenere una grande tranquillità, parlare con tono di voce pacato ed essere rassicuranti nei gesti. È molto indicato avere delle buone capacità di ascolto, mostrare di volere innanzitutto sentire quale sia il suo problema, e solo successivamente rispondere (Boccardi M., 2007). Il tentativo di calmare a tutti i costi il paziente agitato, viene immediatamente respinto dal paziente aggressivo, il quale crede che ci sia nei suoi confronti ostilità e contrasto. In alcuni casi abbandonare la stanza quando l’aggressività è in atto, può dare il tempo al demente di calmarsi ed elaborare meglio la situazione.
Spesso il proprio caro risponde con aggressività al fatto di sentirsi smarrito, non ascoltato e soprattutto non rispettato nei suoi bisogni. Spesso sarà solo utilizzando il linguaggio del paziente stesso (si veda la gestione dei deliri descritta paragrafo omonimo) che si potrà risolvere una reazione catastrofica, senza dover ricorrere ad alcun altro tipo di altro intervento.
Una buona conoscenza e gestione del paziente permette un’ampia prevenzione dei comportamenti aggressivi.
Allucinazioni
Le allucinazioni sono percezioni di un qualcosa che non esiste e tuttavia chi le ha, le ritiene reali. Esse sono involontarie e non criticate ed hanno i caratteri della sensorialità e della proiezione spaziale (Galimberti U., 1999). Esse possono essere di vario tipo a seconda dell’organo di senso coinvolto (uditive, visive, olfattive, tattili ecc.). Certi comportamenti inspiegabili dei pazienti affetti da demenza possono essere ricondotti ad una loro allucinazione. Le allucinazioni sono più frequenti nella demenza con corpi di Lewy e molto rare nell’Alzheimer (Boccardi M., 2007).
Proprio in virtù del fatto che le allucinazioni sono rare negli AD, spesso, comportamenti strani non sono ad esse riconducibili ma piuttosto collegate a dei deliri (vedi paragrafo successivo). Il delirio è facilmente verbalizzabile da parte del paziente e quindi questo facilita il compito dell’operatore, in quanto fornisce gli elementi per la sua stessa elaborazione.
Alcuni sintomi, appartenenti alla categoria dei disturbi della percezione quindi, disturbi di elaborazione secondaria del percetto o allucinatori, sono piuttosto considerabili dei deliri (Boccardi M., 2007). Spesso infatti emerge che il paziente in alcune situazioni tratta appropriatamente gli stimoli problematici, pur continuando a delirare.
Boccardi (2007) sostiene che a volte può essere molto difficile distinguere con esattezza fra allucinazioni, misidentificazioni (vedi in seguito) e deliri, ma questi fenomeni sono generalmente accomunati da una medesima caratteristica, cioè dal fatto che il paziente li ritiene reali. Durante gli episodi di allucinazione è estremamente inutile contrastare il malato, poiché egli è completamente convinto che le sue percezioni siano vere tanto da disconoscere la realtà circostante.
A causa delle allucinazioni il demente arriva ad avere la convinzione che visitatori immaginari vivano nella propria casa, a volte non riconosce la sua immagine allo specchio e la scambia con quella di qualcun altro, altre volte ha l’impressione che le immagini televisive siano reali.
In questi casi è di estrema inutilità contrastare questa convinzione del cliente, bisogna altresì provare a consolarlo e guidarlo (ciò verrà meglio discusso nel paragrafo sui deliri).
Anche se spesso la consapevolezza di avere allucinazioni è assente, a volte quando la malattia è al primo stadio non è così, il demente è consapevole: quindi potrà sentirsi molto spaventato e angosciato tanto da necessitare un enorme supporto sarà opportuno aiutare il paziente a superare questa esperienza rendendogliela più accettabile descrivendogliela come fenomeno dell’invecchiamento e soprattutto spostando la sua attenzione ad altre aree di funzionamento più integre, in modo da riuscire a valorizzare i suoi punti di forza.
Deliri
Come riporta la dottoressa Boccardi M. nel suo manuale per la riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza (2007), i deliri sono idee non corrispondenti al reale, ma fermamente ritenute vere dal paziente. E’ quasi impossibile convincere il paziente della loro falsità. Infatti il carattere di immodificabilità è ciò che caratterizza il delirio. L’autrice aggiunge che quando un paziente mostra un comportamento delirante, è inutile cercare di modificarlo provando a riportarlo nella realtà. Si può chiaramente fare un tentativo per capire quanto si possa intervenire su questa idea, ma se ci si accorge che si tratta di idee deliranti ed è inutile impiegare ulteriori energie per riportare il paziente alla realtà. Boccardi afferma che i deliri sono fra i problemi comportamentali più disturbanti sia per il paziente che per il caregiver. L’autrice sottolinea la necessità di offrire al paziente interventi di vario genere che vanno dal contenimento delle reazioni aggressive che ne possono conseguire, alla necessità di placare le ansie del paziente. Si evidenzia quanto in questi casi l’ideazione di un intervento efficace è una delle più grandi difficoltà del caregiver, il quale spesso si trova a dover fronteggiare il proprio vissuto di impotenza.
È possibile intervenire sui deliri ad altri livelli: per ottenere risultati discreti bisogna in prima analisi cercare di capire quale sia la loro origine, conseguentemente c’è bisogno di definire con chiarezza e coerenza quale obiettivo sia necessario ed etico perseguire.
Qui di seguito verranno riportate delle tipologie di deliri, in modo da poter aiutare il caregiver nel capire come considerare tali disturbi man mano che si presentano, anche qualora i contenuti specifici siano notevolmente diversi:
– Delirio come tentativo di ricostruzione di una realtà solo parzialmente percepita, ricordata e rappresentata, a causa dei disturbi cognitivi.
È chiaro come talvolta il delirio, può nascere da un’errata interpretazione della realtà, situazione che spesso si verifica nei malati di Alzheimer, che sono cognitivamente compromessi su almeno tre livelli di elaborazione cognitiva necessari per la comprensione della realtà:
la percezione, il ricordo e la rappresentazione.
La realtà viene “percepita” in modo parziale da questi pazienti, principalmente a causa dei disturbi dell’orientamento dell’attenzione e di working memory (Baddeley A.D., 1986). Gli elementi percepiti vengono “ricordati” male a causa dei disturbi di memoria. Infine, perché gli elementi cognitivi possano essere elaborati dalla persona è necessario che vengano mentalmente “rappresentati”, e come si è visto i malati di Alzheimer hanno difficoltà di astrazione che compromettono anche questa fase di elaborazione.
Con i pochi elementi rimasti, questi malati cercano comunque di ricostruire quale potrebbe essere la realtà. La “costruzione” della realtà è l’unico modo che l’uomo ha per relazionarsi con essa. Anche la ricostruzione della realtà effettuata dalle persone senza processi degenerativi in atto è sempre parziale e sostanzialmente “falsa”, ma è la migliore possibile per l’uomo nel pieno delle sue facoltà, perciò essa è generalmente socialmente condivisa (Boccardi M., 2007). Le persone affette da processi degenerativi, effettuano un’operazione di costruzione-ricostruzione della realtà del tutto analoga al processo che avviene nelle persone “normali”, ma gli elementi di cui questi malati dispongono sono così lacunosi che il risultato finale è decisamente e visibilmente deficitario.
La chiave di lettura di questo tipo di disturbi è il saper distinguere tra una cattiva e sbagliata percezione della realtà ed un delirio; questo è molto importante ai fini del trattamento riabilitativo. Spesso infatti vi è grossa confusione nel distinguere questi due processi, anche perché l’avvio dei deliri molte volte trae origine dalla distorsioni percettive della realtà che risulta difficile da organizzare in modo coerente.
– Delirio come metafora usata dal paziente per rappresentare se stesso e la sua situazione, sia agli altri che a sè.
Generalmente, la sola parzialità della percezione della realtà non basta per far emergere un vero e proprio delirio. Infatti, se si trattasse solo di un’erronea interpretazione da parte del paziente, basterebbe che una persona fornisse gli elementi per un’interpretazione adeguata e si risolverebbe l’apparente delirio. Questo è infatti ciò che avviene, quando il problema è veramente un’interpretazione erronea. Tuttavia, come abbiamo già detto prima quando l’idea è delirante, qualsiasi spiegazione è inutile. In questi casi il delirio non è unicamente la conseguenza di un’errata interpretazione di fatti parzialmente percepiti o ricordati, ma ha una funzione difensiva e risponde ad un insieme complesso di esigenze da parte del paziente, e quindi viene da lui attivamente costruito, mantenuto e alimentato, anche se in modo non consapevole. Il fatto che il malato abbia a disposizione elementi solo parziali della realtà, non preclude che egli in qualche modo “scelga” gli elementi da ricordare ed utilizzare. Naturalmente questa scelta non è consapevole, ma è funzionale alle sue esigenze. Proprio come le persone sane ricordano meglio le informazioni che hanno una certa importanza emotiva, lo stesso accade per i malati di demenza, i quali ricordano meglio quegli elementi della realtà che poi scatenano il delirio che hanno un certo peso emozionale, cioè ciò che li coinvolge emotivamente al momento o che comunque ha determinato in loro una chiara reazione emotiva (non è raro sentirli rievocare con grande esattezza anche semplici gesti, per loro offensivi, fatti da altre persone anche parecchi minuti prima).
Quando questo si verifica, il delirio evidenzia quali sono gli elementi emotivamente rilevanti per la persona, questo fornisce un utile linguaggio per comunicarli. Con gli elementi di un delirio, la persona esprime e quindi rappresenta i propri disagi, così come il lupo delle fiabe permette al bambino di dare una rappresentazione alle sue paure. Le emozioni fluttuanti e senza nome sono più difficili da gestire e risultano molto più angoscianti delle medesime emozioni di cui noi stessi conosciamo un nome ossia una forma mentale. Il malato di demenza non ha sufficienti risorse cognitive per fare un accurato esame della realtà e quindi ricordare esattamente quale sia il suo disagio.
Il delirio quindi offre il modo per rappresentare comunque le proprie emozioni, anche quando non sono cognitivamente a disposizione tutti gli elementi per identificarle in modo realistico (anche se un paziente non ricorda un fatto, ne mantiene comunque l’emozione corrispondente). Questa caratteristica del delirio impone agli operatori di cambiare strategia, passando dal punto di vista del paziente piuttosto che aspettandosi che egli si adegui alla realtà per lui difficilmente comprensibile.
Pur fornendo al paziente tutti gli elementi per una corretta interpretazione della realtà, si trascurerebbe la vera funzione che ha assunto in questo caso il delirio, cioè quella di comunicare all’esterno e a se stesso la condizione di svantaggio e disorientamento (Boccardi M., 2007). In questo caso il delirio deve essere considerato in funzione di questa necessità. La persona che si prende cura del malato lo dovrà ascoltare in modo da poter capire i significati che sono stati veicolati con linguaggio del delirio. Una volta capiti i significati dovrà a sua volta rispondergli con lo stesso linguaggio con il quale il delirio si è manifestato, proprio come ad uno straniero bisogna parlare nella sua lingua.
– Delirio come meccanismo di difesa
Il delirio può infine avere anche un ruolo diverso da quello dell’autorappresentazione e della comunicazione. Esso si offre anche come strumento per approfittare, in modo non consapevole ma funzionale, dei problemi di memoria per coprire realtà angoscianti che il paziente altrimenti non saprebbe affrontare, poiché ormai carente delle sufficienti risorse mentali per far fronte a realtà particolarmente dolorose (Boccardi M., 2007). Questa funzione del delirio, può in qualche modo configurarsi come “vantaggio secondario della malattia”, in quanto essa offre un’ottima scusa per non ricordare e non sapere, non solo gli elementi inutili, ma a maggior ragione quelli dolorosi.
Come da un lato in modo automatico ed esterno alla coscienza il soggetto demente effettua una selezione delle cose da ricordare in modo che avvenga la rappresentazione del se attraverso il delirio, dall’altro effettua con lo stesso automatismo la scelta delle memorie molto spiacevoli che metterebbero in crisi la persona compromettendo il suo senso di integrità.
Proprio per il fatto che il contenuto dei deliri riesce a mantenere l’integrità dell’individuo non facendolo cadere nell’angoscia, è importante che i caregiver non cerchino di correggere e contrastino queste convinzioni del malato, anzi loro dovranno saper accettarle e rispettarle.
Come la letteratura scientifica suggerisce (Boccardi M., 2007), gli elementi del delirio costituiscono il linguaggio che l’operatore stesso dovrà usare rispondendo al paziente, con l’obiettivo di risolvere i suoi timori e volgere in positivo un vissuto sgradevole, condividere le sue gioie e mantenere integre le sue difese.
– Deliri a contenuto specifico possono essere:
La misidentificazione è un caratteristico tipo di delirio che spesso viene confuso come allucinazione in cui la persona percepisce delle fotografie, immagini televisive, bambole, ed altri oggetti comunque non viventi come se fossero realmente esistenti. In alcuni casi il demente scambia dei perfetti estranei come se fossero dei famigliari o persone significative della propria vita. Allo specchio potrebbero credere di avere a che fare con un’altra persona anziana anziché con la propria immagine. Tali atteggiamenti vengono generalmente considerati dagli esperti come veri e propri deliri invece che di disturbi cognitivi e quindi allucinatori, proprio perché spesso capita che le stesse misidentificazioni a volte vengano interpretate in modo corretto. Quindi sarà possibile che se in un momento il malato considerava la persona in televisione come realmente, nel successivo potrebbe riconoscerla correttamente e quindi come immagine televisiva.
L’anosognosia è la mancata consapevolezza della propria condizione di malattia e quindi dei propri disturbi. Non si tratta infatti di un semplice disturbo cognitivo, quanto di una mancanza di memoria riguardo a disturbi cognitivi, di cui peraltro il paziente è ben consapevole nel momento in cui si manifestano. Più precisamente, il paziente non è consapevole del suo stato di malattia, manifestando invece la ferma convinzione di possedere ancora le capacità che in realtà ha perso in seguito a lesione cerebrale. Se messo a confronto con i suoi deficit, il paziente attua delle confabulazioni oppure delle spiegazioni assurde, incoerenti con la realtà dei fatti. È possibile che l’abitudine al comportamento difensivo di negazione e camuffamento del disturbo, tipico delle fasi iniziali, rafforzi in modo particolare l’amnesia per la propria malattia, in modo analogo a quanto avviene per i deliri con funzione difensiva.
Spesso i malati di demenza mostrano disturbi del comportamento di vario tipo: si spazia dalla ripetizione continua della stessa domanda nonostante gli si risponda, ad un attaccamento morboso al caregiver, spesso vi è un’eccessiva sensibilità verso le sollecitazioni e una irritabilità molto frequente. I pazienti sono molto diversi fra loro, per tanto ciò che può meglio indirizzare l’atteggiamento e il comportamento giusto per arginare queste reazioni sarà di volta in volta la conoscenza approfondita del paziente.
Quando è il familiare a fronteggiare il disturbo comportamentale, spesso sarà piuttosto difficile prenderne le distanze in quanto egli sarà troppo invischiato nella relazione ed il comportamento disturbante non farà altro che aggravare il suo carico di stress. Tuttavia, per il caregiver spesso l’unico metodo per evitare che si verifichino questi fenomeni comportamentali disturbanti è quello di astrarsi, prendendo le distanze in modo da non esserne disturbato immediatamente; successivamente dovrà trovare il modo di far prendere in considerazione al malato anche un altro punto di vista, in cui egli stesso dovrà valutare il fatto che il proprio comportamento non è del tutto appropriato. Il senso dell’umorismo e l’ironia spesso sono ancora compresi dal malato, che può essere talvolta in grado di ridere di sé e modificare il proprio atteggiamento almeno temporaneamente (Boccardi M., 2007). Ma la condizione principale affinché questo possa avvenire è che il caregiver riesca a prendere emotivamente le distanze dal comportamento disturbante anziché subirlo direttamente nei suoi effetti stressanti e quindi di conseguenza attuare risposte sbagliate. Con questa strategia si previene anche un altro genere di errore: il rinforzo della dipendenza del paziente. Spesso credendo di risolvere più velocemente i problemi del malato, il caregiver agisce in modo complementare ad egli. Ma in realtà agendo in questo modo, erroneamente si rinforza nel malato il suo fare disadattivo, facendogli mantenere il problema tale e quale nel tempo e rendendolo dipendente; quindi, impegnarsi ad uscire dal circolo vizioso della complementarietà anche se inizialmente sembrerebbe più difficile, è il modo migliore per assistere e riabilitare il demente.
È anche essenziale ricordarsi che il paziente, nonostante possa considerare se stesso in modo più oggettivo, non è in grado di fare questo autonomamente, ed il suo comportamento non è del tutto volontario. Spesso infatti i portatori di AD sembrano apparentemente relativamente integri tanto che il caregiver possa leggere comportamenti di questo tipo come un volontario tentativo del paziente di infastidirlo. Questo errore è ancora più frequente quando coloro che si curano del malato sono persone della famiglia (figli, nuore, ecc.), che facilmente possono cadere nell’errore di collegare i disturbi a conflitti realmente accaduti nel passato essendo essi stessi stuzzicati da sentimenti ambivalenti che sono normalmente suscitati dalla gestione di questi malati.
Disturbi dell’umore (depressione e ansia)
Depressione e ansia sono sintomi non cognitivi frequenti nelle fasi iniziali di questa malattia, in quanto essi sono reazioni alla consapevolezza dei disturbi. Ma ansia e depressione possono riscontrarsi anche in fasi più avanzate del processo degenerativo nonostante il malato non sembri molto consapevole della sua malattia. Bisogna a tal proposito ricordare che il paziente, pur non ricordando di essere malato, è spesso consapevole dei propri insuccessi, inoltre se istituzionalizzato, e quindi lontano dalla sua casa e dai suoi cari. Può risentirne avendo conseguenze sul tono dell’umore, ciò si verifica anche nel caso in cui il paziente non ricordi sempre con precisione la causa del suo malessere. Ansia e depressione spesso possono essere curati con dei farmaci, ma questi interventi devono essere visti come ausilio per i casi più gravi, come via per migliorare la partecipazione attiva del paziente ad una riabilitazione psicologica e psico-sociale che abbia poi esiti che durino oltre la somministrazione del farmaco. Erroneamente ed in modo non del tutto professionale da parte di chi prescrive e di chi somministra tali farmaci, succede che considerando che hanno carattere sedativo, non lasciano emergere la reattività, vengono spesso abusati, rendendo il malato più controllabile.
Naturalmente intervenire con interventi psico-sociali che riescano a riempire di significato la vita di pazienti anche molto compromessi può aiutare a prevenire e risolvere queste condizioni. Ma è importante tener presente che, ridare significato alla vita di persone che hanno subito molte e gravi perdite è forse la sfida più ardua nel compito dell’assistenza a questo tipo di utenza.
È naturalmente molto opportuno cercare di inserire l’intervento di uno psicoterapeuta nel trattamento di un anziano con disturbi dell’umore.
È utile tenere in considerazione che in base ai risultati di ricerche recenti relative al tono dell’umore, si raccomanda di svolgere un’accurata diagnosi differenziale fra depressione e apatia. Infatti, l’apatia, comunemente osservata nella sindrome depressiva, è causata anche da danno ai lobi frontali (si ricordi che il circuito sistema limbico-lobi frontali è alla base della motivazione), ma non è sinonimo di depressione. L’apatia semplice è una condizione di marcato e generalizzato disinteresse, mentre nella depressione il paziente diventa apatico conseguentemente ad una serie di idee e vissuti negativi di incapacità, colpa, mancanza di speranza, impotenza ecc. vissuti che difficilmente si riscontrano nei pazienti apatici per un danno focale ai lobi frontali. Sono disponibili strumenti testistici per la valutazione dell’apatia, inoltre le normali terapie farmacologiche per la depressione non sono applicabili nei casi in cui non ci sia comorbilità con la sindrome depressiva.
E’ opportuno cercare di mantenere un clima emotivo familiare sereno per fare sì che gli affetti da AD si sentano più sicuri e il meno possibile a disagio, essendo essi particolarmente sensibili a questa variabile ambientale.
Disinibizione
La disinibizione è un disturbo comportamentale tipico dei pazienti affetti da lesioni fronto-temporali, ma presente anche nei portatori di morbo di Alzheimer.
Per disinibizione si intende la riduzione o scomparsa della funzione inibitoria esplicata dal sistema nervoso centrale. In psicopatologia il termine designa un aumento dell’attività psichica accompagnato da un eccesso di impulsi affettivi e aggressivi, nonché da un’iperattività motoria.
I pazienti affetti da lesione fronto-temporale spesso si spogliano in pubblico e si esibiscono in modo inappropriato nelle situazioni più differenti. Nel momento in cui questi pazienti attuano comportamenti disinibiti hanno la totale mancanza di consapevolezza di quello che fanno, tanto che non si accorgono di essere inadeguati, in tal caso nonostante gli operatori abbiano per istinto la spinta a rimproverare essa non risulta la migliore risposta. È più utile convincere il malato a rivestirsi o a interrompere il comportamento inadeguato in altri modi, per esempio distraendolo in qualche modo come ad esempio offrendogli una pietanza di suo gradimento.
Lo spogliarsi in un luogo inadeguato può avere tanti significati, potrebbe significare che ha caldo e non sappia come fare o che deve andare in bagno. In questo caso quindi è opportuno che si faccia una veloce e lucida analisi dei suoi bisogni, in modo da agevolarlo nella loro risoluzione.
Alterazione del ciclo sonno-veglia
Una delle conseguenze della malattia di Alzheimer è la disorganizzazione dei normali ritmi circadiani, cioè di quei ritmi fisiologici che, nel corso della giornata, indicano all’individuo se è ora di mangiare, di dormire, di essere attivi, ecc. La disorganizzazione di questi ritmi risulta molto evidente negli affetti da AD date le sue grosse conseguenze sul sonno, che appare caratterizzato da un andamento irregolare, da continui risvegli, ed eccessi di sonno nei momenti meno opportuni o anche difficoltà nell’avvio dello stesso. Spesso, nelle ore notturne, il paziente non assonnato si dedica alle più insolite attività girovagando in casa come se fosse pieno giorno e non sentisse stanchezza alcuna. Il fatto di non dormire di notte, provoca poi particolare stanchezza di giorno ed il paziente può dormire per larga parte della giornata quindi essendo per nulla sintono all’andamento della vita famigliare. Anche questo disturbo è particolarmente pesante per il caregiver.
Oltre alle ormai varie possibilità di intervento attraverso una terapia farmacologica, il caregiver deve fare in modo di tenere sveglio il paziente di giorno, a tale scopo è utile impegnarlo in varie attività di suo gradimento cosi che si stanchi e la sera si addormenti. Un’altra utile strategia è quella di mantenere una buona illuminazione ambientale di giorno, possibilmente con luce naturale. Se questo non fosse possibile è consigliato portare spesso il paziente in ambienti esterni o addirittura si può accessoriare la casa con particolari lampade adatte alla Light Therapy in modo da stimolare il funzionamento di quei nuclei (il nucleo soprachiasmatico in particolare) responsabili nella generazione dei neurotrasmettitori che regolano il ritmo sonno-veglia. Se il paziente assume medicinali che danno sonnolenza come effetto collaterale, appare utile considerare la possibilità di somministrarli di sera piuttosto che durante le ore del giorno.
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Nel 1935 sulla rivista Modern Mechanix veniva presentato “the notificator”, una speciale macchinetta a monete che mostrava per un arco di tempo stabilito sulla sua bacheca dei messaggi, che le persone si scambiavano per prendere appuntamenti.
Fig. 1 The Notificator… ‘To aid persons who wish to inform friends of their whereabouts.’
Aiutava le persone a lasciarsi messaggi su dove e quando incontrarsi
Photograph: Guardian
Oggi abbiamo i social network che ci offrono bacheche su cui lasciare messaggi e tutto questo può avvenire in ogni dove, sul “palmo della nostra mano” con gli smart phone, tablet, pc ecc. Per essere romantici e pensando in particolare a Twitter, possiamo addirittura dire che, il “social dell’uccellino” ha la stessa “mission” del Notificator del ’35, cioè offre la possibilità di comunicare ai nostri conoscenti dove siamo, cosa facciamo e quando.
In una ricerca effettuata all’Università della California da Larry Rosen, presentata nel 2011 alla convenction annuale dell’American Psychological Association, si evidenzia che l’uso eccessivo dei social network attiva e si innesta con alcuni disturbi di personalità quali:
Disturbi dell’attenzione
Depressione
Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)
Disturbo Narcisistico di Personalità
Ipocondria
Disturbo schizoafettivo e schizotipico
Dismorfismo corporeo
Voyeurismo
Dipendenza
Già nel 1984 Craig Broad affermava che l’utilizzo eccessivo di strumenti tecnologici crea diversi disturbi causati dallo stress e genericamente definiti come “Tecnostress” pertanto è molto possibile che anche con l’uso eccessivo dei social network si possono avere i seguenti disturbi:
ansia, attacchi di panico
insonnia
mal di testa
ipertensione
calo della concentrazione
disturbi gastrointestinali e cardiocircolatori
depressione
disfunzioni ormonali
-nell’uomo abbassamento del testosterone con calo del desiderio sessuale -nelle donne sindrome premestruale.
Inoltre, può favorire:
alterazioni comportamentali
l’isolamento relazionale
E’ importante notare che, la rete e la condivisione alimentano i vari disturbi o tendenze di personalità già presenti in società, e spesso aggravandoli, basti pensare ai Selfie, essi si sono diffusi grazie a due principali assetti di personalità:
il narcisista che grazie alla condivisione del suo “autoscatto” facilmente cerca e ottiene ammirazione e gratificazione,
L’ insicuro che guardando le “foto della vita degli altri” compromette sempre di più la propria autostima, indebolendola e abbassandola.
E’ possibile immaginare quanto negativo possa essere per una persona con disturbi alimentari, avere la possibilità di confrontare la propria fisicità con migliaia di contatti, solamente cliccando sulle loro foto. Ultimamente si parla tanto di questa nuova “ansia social” che è stata chiamata FOMO, acronimo di Fear Of Missing Out, ovvero paura di essere tagliati fuori a causa dell’essersi persi qualche post o Twit,… un evento, una festa, una situazione importante.
Questi mezzi di comunicazione essendo “social”, riprendono molto la nostra società, è quindi ormai, molto facile parlare di bullismo e cyberbullismo, stress e tecnostress, dipendenze e net-addiction, overload information addiction ecc. quindi è molto importante non sottovalutare che mantenendoci sempre più lontani dal nostro corpo e dai veri contatti fisici, queati disturbi possono grazie alla rete essere accentuati. I social network hanno cambiato il modo in cui si comunica e in cui si condividono o si ricercano informazioni, facendo emergere nuove dinamiche di interazione (Ellison NB, Steinfield C, Lampe C ,2007).
In tutto questo scenario sin qui descritto brevemente non bisogna comunque dimenticare che se da un lato ci sono persone che a causa dei social network accentuano le proprie difficoltà e disturbi; dall’altro ci sono anche tante altre persone che traggono beneficio da essi, utilizzando questi mezzi di comunicazione in modo costruttivo, pubblicizzando la loro azienda, aprendo reali confronti con i suoi “amici”, avviando campagne sociali di informazione, raccogliendo consensi e mobilitazioni sociali, ritrovando i propri reali amici ecc.
La conclusione che si può trarre a mio avviso è che sicuramente il mezzo “social network” ha la tendenza ad accentuare e facilitare alcune condotte negative di uso sbagliato dello strumento ed anche disturbi di personalità, ma se ben usato allarga i confini ed offre nuove possibilità di evoluzione. Sulla base di quanto detto in questo ariticolo appare evidente che ancora diversi studi sui Social Network vadano effettuati , tanto da poter informare meglio i propri fruitori dei pro e contro che essi stessi contengono.
Riferimenti bibliografici:
• Craig Broad “Technostress: the uman cost of computer revolution” edito nel 1984 da Addison Wesley
• Ellison NB, Steinfield C, Lampe C (2007) The benefits of Facebook “friends”: Social capital and college students’ use of online social network sites. Journal of Computer-Mediated Communication, 12 (4), article 1.
• Larry D. Rosen, “Poke Me: How Social Networks Can Both Help and Harm Our Kids” ricerca presentata alla Convenction annuale dell’American Psychology Association di Washington D.C., August 4-7 2011 (http://www.fenichel.com/pokeme.shtml)
L’ ansia è una complessa combinazione di emozioni negative che includono paura, apprensione e preoccupazione, ed è spesso accompagnata da sensazioni fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea, tremore interno. Dal punto di vista emozionale, l’ansia causa un senso di terrore o panico, nausea e brividi. Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia comportamenti volontari che involontari, diretti alla fuga o all’evitare la fonte dell’agitazione. Questi comportamenti sono frequenti e spesso non-adattivi, dal momento che sono i più estremi nei disturbi d’ansia.
Comunque l’ansia non sempre è patologica o non-adattiva: è “un’emozione” comune come la paura, la rabbia, la tristezza e la felicità, ed è una funzione importante in relazione alla sopravvivenza .
Se l’ansia ricorre cronicamente e questa ha un forte impatto sulla vita di una persona, si può diagnosticare un disturbo d’ansia. I più comuni sono:
Come condiviso dall’ American Psychiatric Association (2000) nel DSM-IV-TR (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano) un Attacco di Panico non è un disturbo codificabile. Ma associabile ad uno stimolo come uno spazio aperto (agorafobia), chiuso (claustrofobia)…poiché gli Attacchi di Panico si manifestano nel contesto di molti diversi Disturbi d’Ansia. La caratteristica essenziale di un Attacco di Panico è un periodo preciso di intensa paura o disagio accompagnati da almeno 4 sintomi somatici o cognitivi su 13. L’attacco ha un inizio improvviso, raggiunge rapidamente l’apice (di solito in 10 minuti o meno), ed è spesso accompagnato da un senso di pericolo o di catastrofe imminente e da urgenza di allontanarsi. I 13 sintomi somatici o cognitivi sono palpitazioni, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, vertigini o sensazione di testa vuota, derealizzazione o depersonalizzazione, paura di perdere il controllo o di “impazzire”, paura di morire, parestesie e brividi o vampate di calore. Gli attacchi che soddisfano tutti gli altri criteri, ma sono caratterizzati da meno di 4 sintomi somatici o cognitivi sono detti attacchi paucisintomatici ma non esplodono in un vero attacco.
Il DSM IV riporta i seguenti criteri diagnostici per questo disturbo:
Un periodo preciso di intensa paura o disagio, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti:
palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia
sudorazione
tremori fini o a grandi scosse
dispnea o sensazione di soffocamento
sensazione di asfissia
dolore o fastidio al petto
nausea o disturbi addominali
sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento
derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sé stessi)
paura di perdere il controllo o di impazzire
paura di morire
parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio)
brividi o vampate di calore.
Bibliografia: American Psychiatric Association (2000) nel DSM-IV-TR (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano)
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Quando pensieri, immagini (o qualunque altro contenuto mentale) diventano intrusivi ed emergono indipendentemente dalla volontà della persona e dal loro grado di insensatezza, o meglio si manifestano in ridondanza.Queste ossessioni possono diventare per un soggetto fortemente disturbanti e penalizzanti. In alcuni casi il problema non rimane limitato ai soli pensieri (contenuto ideativo) ma coinvolge anche la sfera comportamentale dando origine, ad esempio, ad azioni ripetitive (come lavarsi le mani, pulire la casa, ripetere certe parole, pregare in continuazione etc.).
Secondo il modello comportamentale il disturbo ossessivo compulsivo rende l’individuo vittima di un circolo vizioso chiuso dal quale è difficile uscirne. Una determinata situzione stimolo di tipo ossessivo alza i livelli di ansia che vengono abbassati grazie ai comportamenti compulsivi; tale abbassamento della soglia ansiosa così ottenuto rinforza le compulsioni e contemporaneamente rende necessario un maggiore controllo dei pensieri ossessivi.
Pancheri nel 1992 evidenziava che la parola ossessione derivi dal verbo latino “Obsidere” assediare nel senso di stare addosso a qualcuno. E.Giusti e Chiacchio nel 2002 ne puantualizzano il significato dicendo che in psicopatologia il termine ossessione indica la condizione di “essere assediati” contro il proprio volere
I criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo doc secondo il DSM-IV-TR* sono i seguenti:
Ossessioni come definite da 1., 2., 3. e 4.:
pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati e che causano ansia o disagio marcati
i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale
la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni
la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente (e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del pensiero).
Compulsioni come definite da 1. e 2.:
comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente
comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.
In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Nota: Questo non si applica ai bambini.
Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali.
Se è presente un altro disturbo in Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni non è limitato ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un Disturbo dell’Alimentazione ; tirarsi i capelli in presenza di Tricotillomania; preoccupazione per il proprio aspetto nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo ; preoccupazione riguardante le sostanze nei Disturbi Correlati a Sostanze ; preoccupazione di avere una grave malattia in presenza di Ipocondria; preoccupazione riguardante desideri o fantasie sessuali in presenza di una Parafilia; o ruminazioni di colpa in presenza di un Disturbo Depressivo Maggiore, Episodio Singolo o Ricorrente).
Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale.
Specificare se:
Con Scarso Insight: se per la maggior parte del tempo, durante l’episodio attuale, la persona non riconosce che le ossessioni e compulsioni sono eccessive o irragionevoli.
Le ossessionipiù frequenti sono:
le idee di contaminazione (come essere contaminati quando si stringe la mano a qualcuno o si tocca qualsiasi cosa),
i dubbi ripetitivi (come il chiedersi se si è lasciato il gas aperto o se, guidando l’auto, abbiamo investito qualcuno senza accorgersene),
la necessità di tenere le cose sempre in un certo ordine (con conseguente disagio intenso quando gli oggetti sono in disordine o spostati o asimmetrici),
gli impulsi aggressivi o terrifici (come il pensiero di poter far del male ad un figlio o non riuscire a trattenersi dal gridare oscenità in chiesa),
le fantasie sessuali (come il presentarsi alla mente di ricorrenti immagini pornografiche).
Le ossessioni non sono, in genere, correlate a problemi reali della vita; quando pensieri, impulsi o immagini sono preoccupazioni eccessive riguardanti problemi reali della vita (come difficoltà reali quali problemi finanziari, lavorativi o scolastici) si parla piuttosto di “idee prevalenti”.
Ovviamente l’indicazione per la diagnosi e cura è affidata al professionista. Quando un cliente ossessivo-compulsivo decide di rivolgersi ad uno psicoterapeuta entra in una dimensione per lui molto nuova dalla quale deciderà di proteggersi quindi fuggire o affidarsi. Qualora decidesse di affidarsi (curarsi) potrebbe comprendere meglio chi è, se stesso (May, 1970), cambiare le sue convinzioni sulla natura della realtà (Watzlawick, 1980), cambiando punto di vista, modificare o attenuare i sintomi imparando quindi a gestirli, alleviando la sofferenza (Lazarus, 1982).
BIBLIOGRAFIA
*American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.
Giovanni B. Cassano, Paolo Pancheri, Trattato italiano di psichiatria, Elsevier, 1992
Edoardo Giusti, Antonio Chiacchio, Ossessioni e compulsioni. Valutazione e trattamento della psicoterapia pluralistica integrata, Sovera Edizioni, 2002
Edoardo Giusti, Flavia Germano, Etica del con-tatto fisico in psicoterapia e nel counseling , Sovera Edizioni, 2003
Watzlawick P. Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, 1980, ed. or. 1977
Edoardo Giusti, Riccardo Bucciarelli, Terapia del senso di colpa.Oltre la malinconica autopersecuzione, Sovera Edizioni, 2011
Rollo May, Psicologia esistenziale, Astrolabio, Ubaldini, 1970
La fobia è la paura irrazionale persistente concernente uno specifico oggetto, attività o situazione (lo stimolo fobico), che causa il desiderio compulsivo di evitarlo. Ciò porta spesso o all’evitamento dello stimolo fobico, o ad affrontarlo con grande sforzo*.
L’ansia, quasi invariabilmente, viene avvertita immediatamente quando avviene il confronto con lo stimolo fobico con forte desiderio di fuga.
*American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.
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